Ciao, mi chiamo Rebecca, ho 26 anni e ho la Tourette.
Nel senso che ho quella insieme a tante altre cose: un look eccentrico, una parlantina capace di mettere in difficoltà la mano della psicologa che corre sul quaderno, il desiderio costante di emergere all’attenzione altrui, un’indole che mi spinge a mordere preventivamente chiunque io abbia il sospetto stia per fare un commento scomodo su di me.
Già, tutta roba che mi porto addosso e a spasso con l’idea che, se non riesco a non passare per quella strana, tanto vale mettere i manifesti –sì, ciao, ecco vedi sono un tantino bizzarra, molto piacere. Certo, tutto il contorno serve a mascherare lei, a fare in modo che l’inquilina scomoda che occupa i miei spazi da sempre, a scrocco e senza chiedere il permesso, non spicchi come un semaforo rosso. Ma tanto lei emerge comunque, a volte di più, a volte quasi niente, come una stronzetta capricciosa. Forse un po’ mi somiglia.
Ciao, mi chiamo Rebecca, adoro ridere e scherzare su letteralmente qualsiasi cosa, tranne una, è ovvio. Perché la mia loquacità ha avuto sempre un solo, unico veto. Fino a un paio d’anni fa, io la Tourette non la volevo neanche nominare. Sapevo di averla, chi mi conosceva sapeva che l’avevo e il segreto per la serenità era fingere che lei non esistesse.
Poi ho cominciato a fare un po’ di coming out: ho deciso di dichiarare apertamente la mia “touretticità”.
Per fortuna i miei genitori sono stati tra i primi a conoscerla (nonché a subirla!), quindi non ho dovuto oltrepassare questo ostacolo.
Questa è in assoluto la mia dichiarazione più plateale.
Oltre ad avere 26 anni, la tourette, e tutti gli eccessi e gli accessori di cui sopra, ho un sogno: piccolino, nulla di inconcepibile. Tra l’altro uguale al sogno del protagonista di un film su questo tema (stesso sogno, stessa patologia, che insipidezza!). Vorrei fare la prof.
Vorrei fare la prof di lettere, prima di tutto perché mi piace la letteratura, che è un amore molto arduo per un tourettico. A volte sembra che, più ti piace un libro, più sei consapevole di essere arrivato al momento clou, e più arranchi nel procedere, più torci il collo, scrolli la testa e strizzi gli occhi.
Mi è capitato di entrare in questa modalità bambina-dell’esorcista in metropolitana. Ancora peggio: mi è capitato che qualche passeggero chiedesse delucidazioni circa il mio stato psico-fisico (“signorina, tutto bene? Ha per caso bisogno di aiuto?” – “No guardi grazie tante, sono solo arrivata al momento di spannung narrativo, sto bene, lei non immagina quanto… Scusi, echeccavolo, siamo a Milano, continui ad alienarsi e farsi i fatti suoi come fan tutti, no?!”). I miei libri preferiti, nelle pagine che preferisco, sono pieni di squarci e spiegazzamenti vari.
Ma c’è un altro motivo, per cui vorrei insegnare. A me i professori hanno salvato la vita.
Io le cose le ho fatte all’incontrario. La mia prima infanzia è stata uno strazio: iniziavano i primi tic, non capivo cosa avevo, i miei genitori non capivano cosa avevo, gli psicologi non capivano cosa avevo, i miei coetanei mi prendevano in giro, i loro genitori mi guardavano con timore e ribrezzo. Poi è arrivata la scuola media, cioè l’inferno in terra per chi varca le soglie della pubertà. Ma io crescevo, diventavo più forte, imparavo a rispondere alle prese in giro, i miei coetanei imparavano a capirmi, sbocciavano le prime intese tra pari. Alle medie ho incontrato la mia prima insegnante insolita, il primo adulto che mi abbia fatto sentire amata nonostante –e, anzi, a partire da- i miei tic.
Al liceo non avev(an)o ancora capito cosa avessi, e mi ero arresa a considerarmi soltanto una persona “con tanti tic”. Finché un mio professore mi ha consigliato, se avevo voglia di indagare, di provare a rivolgermi all’istituto Besta. Anni e anni di sedute dagli psicologi e la mia prima diagnosi è arrivata grazie a un insegnante.
Al liceo ho avuto anche una prof che mi buttava fuori dalla classe quando avevo la mia tosse nervosa, perché mi accusava di farlo apposta per darle fastidio. Ringrazio anche lei, perché mi ha insegnato che ci si può schierare contro l’autorità per far valere il proprio senso di giustizia. Mi odiava così tanto, la temevo così tanto, che sono diventata la più brava della classe nella sua materia, quella che poi è diventata la mia: così quando lei mi urlava contro potevo essere sicura che non ero io a essere sbagliata in quella situazione. Mi ha mostrato che le relazioni con i compagni non erano più così difficili come da bambina, loro erano pronti a difendermi, a consolarmi, ad amare me e il mio pacchetto completo.
Alla fine dell’università ho imparato a raccontare tutti i miei lati apertamente, incluso questo. Sono passata dal tentare di nascondere con vergogna, ad abbracciare questa mia caratteristica come parte di me, una parte faticosa, certo, come tante altre, ma pur sempre mia. Deliziosamente e fieramente mia.
Forse sono stata fortunata, sicuramente più di altri. Non tutti hanno trovato in casa, o nella scuola, o tra gli amici, gli strumenti per imparare ad accogliersi e coltivarsi. La mia tourette non è ingestibile come un tempo, ma dal punto di vista psicologico è stata, e continua ad essere, a tratti, altamente invalidante. Da bambina abbaiavo e ogni tanto sentivo l’impulso irrefrenabile di accucciarmi e toccare a terra con il naso. Crescendo, sono riuscita a costringermi a controllarmi il più possibile in mezzo alle persone, specie se sono tante, o sconosciute. Ma si tratta pur sempre di repressione, che richiede un grosso investimento di energia psichica e con chi mi conosce bene, intimamente, è inevitabile che gran parte di questo lato di me sfugga all’autocontrollo.
Quando trovo un fidanzato, oltre all’inadeguatezza fisica e/o caratteriale, mi tormenta un altro dubbio, più pressante: quanto mi troverà mostruosa? E fino a che punto è disposto ad accettarmi? Ma se ci penso bene, in fondo, è quello che ci chiediamo tutti, ognuno con i suoi tarli e le sue imperfezioni, più o meno grandi. E spesso peggiori ai nostri occhi di quanto non appaiano agli altrui.
Voglio insegnare perché sono stata una bambina presa di mira, emarginata, allontanata, vessata e molto fragile. A scuola sono stata chiamata scimmia, considerata contagiosa, rumorosa e seccante.
A scuola però, ho trovato anche il mio porto sicuro, quello che questa istituzione davvero dovrebbe essere. E nel profondo, so che i bambini che sono stati come me partono con un pizzico di vantaggio in più, per la loro capacità di mettere a fuoco prima degli altri certi meccanismi, di smascherarli. E forse, anche per il loro coraggio di saperli raccogliere, accantonando il desiderio di nasconderli sotto il tappeto, e di produrne dialogo, utilizzandoli come punto di partenza per fare la differenza.